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DOPO il Madagascar



Marta e Nicolò, 27 agosto 2024

DOPO il Madagascar

AL RITORNO DAL VIAGGIO DI NOZZE


Ormai è quasi un mese che siamo tornati alla base, nella nostra casetta vicino a Monza, eppure non ce la sentiamo di dire che, come si dice al ritorno dalle vacanze, il Madagascar “è solo un ricordo”. Il Madagascar è, piuttosto, un’esperienza viva nei nostri cuori che ha cambiato il nostro modo di guardare alla realtà e, come ci ha detto suor Serena, di sorridere (“chi torna dal Madagascar sorride di più”). Dopo un mese di esperienza missionaria presso le fraternità delle suore francescane dell’Immacolata di Palagano la domanda più frequente che amici e parenti ci hanno rivolto è stata questa: “ma voi cosa facevate là?”. Ed è la domanda a cui è più difficile rispondere, perciò partiamo da qui. 
L’attività che abbiamo portato avanti per un mese è stata quella di stare: stare con gli occhi spalancati su un mondo così diverso dal nostro, stare con il cuore aperto davanti ai volti incontrati e ai racconti ascoltati, stare ai programmi e stare anche agli improvvisi cambiamenti, stare ai ritmi della natura (ci si sveglia con il sole e si va a letto quando tramonta), stare nei momenti di preghiera, stare tra un mucchio di bambini con cui non riesci a parlare eppure ti capisci benissimo, stare in mezzo a delle suore che danno la loro vita per la missione e godere del privilegio di poter osservare quanto accade intorno e dentro alle loro mura. Fin da subito abbiamo intuito che per essere ospiti in una terra a noi straniera avremmo dovuto sospendere il nostro modo di giudicare, non applicare i nostri schemi a ciò che ci trovavamo di fronte perché altrimenti il Madagascar sarebbe stato per noi solo un paese povero dove la gente fa cose strane: c’è chi con una pentola e un po’ di fuoco cucina a bordo della strada, persone che camminano per chilometri anche a piedi nudi, ci sono baracchini dove le persone saldano cose senza alcun tipo di protezione, chi aggiusta macchine e motorini che sembrerebbero irreparabili, ci sono bambini che girano da soli e altri che portano al pascolo gli zebù, il macellaio lascia la sua carne all’aria aperta per tutta la giornata, quelli che mangiano la canna da zucchero e poi la sputano per terra, ci sono gruppi di persone che, ballando e cantando, con delle palme e un bambino sulle spalle corrono a una sorgente d’acqua per poter fare il rito della circoncisione. Potremmo continuare perché di cose “strane” ne abbiamo viste tante e, come abbiamo annotato sul nostro quaderno la prima volta che siamo usciti da soli in capitale, “non è tutto wow, è tutto contrastante”.
Eppure abbiamo scoperto che, stando, lo sguardo cambia e così ci siamo portati a casa una collezione di esperienze non strane, bensì benedette, perché il Signore le ha pensate proprio per noi. Tra queste ve ne raccontiamo solo alcune. C’è quel giorno (il terzo dal nostro arrivo) in cui il vicario della diocesi di Tanà, pére Mami, dopo aver celebrato il funerale di suor Marie Jeanne, a tavola mentre cercavamo di intenderci tra francese, inglese, italiano e malgascio, ci ha ringraziati perché dopo la comunione ci siamo inginocchiati a pregare (alla funzione erano presenti centinaia di persone, mica solo noi!). 
C’è stata la nostra prima messa, ad Ampahimanga, dove la catechista che conduceva la funzione ci ha citati come esempio di pellegrini e, su invito del presidente della chiesa, tutti i fedeli ci hanno applaudito per due volte: hanno applaudito a noi che non capivamo una parola di malgascio e che sentivamo di essere quelli diversi, un po’ fuori posto, eppure così ci è stato chiaro che la nostra sola presenza potesse essere segno di qualcosa. Sempre ad Ampahimanga ci sono stati quei bambini che, come hanno visto che avevamo portato in valigia dei palloni da basket e del tempo da dedicare loro, ci facevano gli appostamenti fuori dal cancello per venire a giocare con noi. C’è Benedicte, un’infermiera che lavora presso uno dei dispensari delle suore, moglie di Mami e mamma di tre figli, che si è affezionata a noi in modo inspiegabile e, quando ci siamo rivisti a Tanà, ci ha portato in regalo delle buonissime arachidi pralinate in uno di quei cestini di rafia che giù si usano per fare la spesa. 
C’è stato quel pranzo domenicale con le suore di Ambohimandroso nel cortile davanti casa per cui suor Mari Ange ha preparato per noi risotto, spiedini alla griglia e verdure buonissime e, per uno scherzo che portavamo avanti da ore, noi le abbiamo preparato dei soldi finti (2000 ariari a spiedino) per pagare il conto di quel pranzo che sarebbe stato uno “spettacolo”. 
C’è stato quel giorno nella fraternità Casa di Betania in cui abbiamo conosciuto Antonio, un bambino di tre anni a cui ci siamo legati moltissimo, che dopo aver passato un’ora insieme a guardare chi giocava a basket senza poter parlarci nella stessa lingua, ha detto in malgascio: “tu sei mia amica”. C’è stato anche il pomeriggio in cui la mamma di Antonio, Edmé, ci ha invitati a casa loro e si è scusata perché non aveva nulla da offrirci, eppure in quella casa di terra rossa e fango dove non c’era niente, noi abbiamo trovato un mucchio di bambini e parenti affacciatisi alla porta per stare con noi. C’è stato quel giorno in cui siamo stati invitati alla Famadihana, ovvero la festa dell’esumazione dei morti, che è una tradizione funeraria delle popolazioni dell’altopiano, che abbiamo vissuto come veri malgasci ballando al ritmo delle trombe e assistendo a qualcosa di unico. C’è anche quell’ultimo pomeriggio del nostro viaggio passato insieme a due suore a provare i passi di Madre Tierra indossando cappelli di rafia e stoffe malgasce: quante risate per preparare la festa di quella sera!
Anche questa lista di esperienze benedette potrebbe continuare, ma ci fermiamo su un punto importante che abbiamo detto anche nel kabari (discorso) dei saluti e ringraziamenti: forse saremmo stati più utili alle suore e alle persone incontrate se fossimo stati medici o se avessimo saputo aggiustare qualcosa (c’è ancora una macchina da cucire ad Ambanidia che aspetta qualche volenteroso tuttofare che si occupi di lei), ma 
quello che abbiamo portato giù 
non sono state le nostre competenze, 
quanto un po’ del nostro tempo, 
la voglia di stare insieme e incontrare un altro mondo. 
Va da sé che nelle valigie del ritorno non c’erano solo 
riso, banane e patate, 
quello che abbiamo portato a casa è molto di più 
e forse le parole non possono spiegarlo.

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